A cura di Enrico Maria Milič e Massimiliano Milič
Sara Devetak è la primogenita della famiglia Devetak. Fa parte di quei Devetak che gestiscono il più importante ristorante del Carso nel paese di Vrh (San Michele del Carso).
Sara è agricoltrice, figlia di Avguštin e Gabriella, moglie di Pavel e madre.
Questa che segue è la sua storia, anzi, queste sono le sue storie. Le abbiamo raccolte in una mattina di marzo 2018, tramite testo, foto e nella forma di un podcast audio (vai su SoundCloud ad ascoltarlo).

LA GIOVANE SARA
Sara ha 18 anni. Sa che c’è il Carso sotto di lei ma guarda al cielo. Sogna di vivere a Bruxelles come interprete. Così, sceglie di andare all’università e di studiare ungherese e russo. Insegue la libertà e ne intravede un assaggio: andare in Erasmus. E un giorno, finalmente l’Erasmus arriva: 6 mesi via da tutti.
In quei 6 mesi tra ventenni di tutta Europa succede qualcosa che la sorprende. Sente che qualcosa manca al suo cuore: il suo paese, il Carso e la sua famiglia.
Torna, vuole laurearsi, si laurea e decide di restare là, sopra il Carso, da dov’era partita coi suoi sogni.
Partecipa a un corso come sommelier e inizia a aiutare in sala nella Lokanda di famiglia.
Ma ha ancora le idee ben confuse su quello che sarà del suo futuro professionale.
Accade un giorno che il nonno di Sara, responsabile dei campi di famiglia, indichi Sara come sua aiutante. Sara deve adeguarsi ma senza tanta convinzione. «Ahime e ahilui, all’inizio lasciai una giungla al posto degli orti. Odiavo stare in mezzo alla natura. Volevo stare tra la gente».
Suo papà pare prenderla per le orecchie: «Senti, qua siamo tutti indaffarati. Il nonno sta male e tocca a te piantare quelle verze». Ricorda Sara: «3 giorni per fare una fila di verze. Era una tortura. Era caldo, era tutto attacaticcio».
Ma alla fine le verze crescono. «Guarda te», si dice Sara. «Forse questo lavoro non è così male…».

AGRICOLTRICE IN CARSO, LA TERRA SENZ’ACQUA
Pochi sanno come gestire un’impresa agricola professionale in Carso. Nella tradizione, l’agricoltura è sempre stata spezzettata in piccole proprietà famigliari dove campi e animali servivano prima di tutto a far sopravvivere ogni casa. La tradizione, come se non bastasse, viene schiacciata dall’industrializzazione del dopo guerra. Coltivare dei campi in Carso non conviene quasi più a nessuno e gran parte della terra agricola viene abbandonata. Tutto questo accade in Carso, dove l’acqua scorre solo sotto terra e il suolo è tra i più pietrosi e infertili.
Sara non ha studiato agronomia e la sua famiglia prima di tutto è una famiglia di osti. «Esistono corsi per piantar le robe?», chiede Sara. «No, non esistono!», le rispondono in paese.
Inizia a cercare punti di riferimento. Sara non li trova nelle grandi pianure agricole, ma in qualche libro di agricoltura biologica e nei dintorni di casa sua. Una delle ispirazioni è il viticoltore-filosofo Marko Fon, carsolino, uno che ha fatto virtù dalle difficoltà del territorio. Se in Carso abbiamo viti vissute senz’acqua per 120 anni, potranno vivere altrettanto e senz’acqua anche quelle che piantiamo da oggi in poi, dice Marko.
Nasce a Vrh un progetto di fattoria dove l’acqua viene usata con parsimonia. «Usiamo l’irrigazione a goccia e solo in caso di necessità». Qui per debellare i parassiti e per alimentare la fertilità si usano rimedi naturali al posto della chimica, attingendo alla tradizione e alle moderne tecniche bio. «Diamo propoli, aglio e ortica per irrobustire la pianta in maniera tale che riesca a far fronte alle intemperie».
Inizia lo sviluppo di un’azienda che rifornisca il ristorante di famiglia con materie prime di qualità. Sara produce confetture, salumi e altri prodotti destinati alla Lokanda e alla vendita diretta al pubblico. «Quando mangi la nostra confettura, assaggi me e tutta la mia fatica a farla. Mi aiuti a far crescere il nostro territorio», spiega Sara. «Il segreto non è succhiare il midollo alla terra, ma rispettarla».
Uno dei capolavori di Sara è in un campo. Dice, sorpresa lei stessa: «Un pescheto sul Carso? Te lo immagini?». Sono 40 peschi sopravvissuti tra i 70 alberelli che erano stati piantati originariamente. Sono una selezione naturale: in Carso ha diritto di esserci solo chi ce la può fare a dure condizioni. I frutti del pescheto e delle altre coltivazioni finiscono in confetture generate da tanti test realizzati negli anni assieme alla mamma e chef Gabriella. Tradizione, sostenibilità, salubrità e gusto devono tutti puntare a essere degni di “Vrh”: che è il nome del paese dove i Devetak vivono ma che letteralmente vuol dire “vetta”.

L’INTEGRAZIONE DI NATURA, CASA E LAVORO
Presto Sara sposa Pavel, apicoltore. I due uniscono le forze in tutti i sensi.
«Con mio marito abbiamo fatto una scelta di vita. Il nostro lavoro va sempre in simbiosi con la vita privata e abbiamo costruito la nostra azienda sulla nostra vita», afferma Sara.
«Io non dico mai ‘vado a lavorare’. Vado nei luoghi della nostra proprietà e nei nostri campi. Abbiamo scelto di crescere i nostri bimbi così e fargli vedere la vera essenza della vita, a contatto con la natura e la famiglia».
Nel frattempo viene scelto il nome dell’azienda agricola: “Hiša okusov” o, in italiano, “Casa dei sapori”.

DAL 1844 QUELLA FETTA DI SALAME
Le verze sono cresciute, Sara ha fatto delle scelte, passano le stagioni, Sara inizia a fondersi al meglio con la terra di cui è figlia. Il Carso ha generato Sara ma non basta. Sara ha scelto di esprimere il Carso.
«Non siamo qui per scherzo», dice Sara. «La mia e delle mie sorelle è la quinta generazione che porta avanti la nostra tradizione carsolina slovena. Stiamo dando al territorio una nostra impronta». Continua: «Ogni persona che varca la porta della Lokanda Devetak percepisce questa sensazione di famiglia, di fiducia, di certezza, di un posto accogliente che ti dà la sicurezza di quello che è stato fatto qua e si sta ancora facendo. È tutto vero. Questi luoghi ti arricchiscono di un sentimento che altrove viene messo in disparte. Il cliente sa che quando torna avrà sempre le stesse persone. Sa che potrà sfogarsi. Sa che riceverà in cambio la nostra sincerità e le nostre persone».
È una tradizione famigliare che inizia almeno nel 1844, quando per la prima volta i registri della chiesa certificano la presenza dei Devetak su questo colle. Il protagonista di allora è un calzolaio, cioè il trisnonno di Sara, il quale già incarna un’attitudine di famiglia. Inizia a offrire un bicchiere di grappa e una fetta di salame ai clienti che aspettano una scarpa da rammendare o una scarpa nuova. Quella ospitalità si trasforma presto in osteria paesana. Quell’osteria diventa, negli ultimi decenni, l’unico esercizio del Carso riconosciuto nella guida Michelin ai ristoranti d’Italia.
Il ricordo del trisnonno capostipite vive anche in un’altra maniera. Era noto in paese non solo per essere calzolaio ma, suo malgrado, per essere zoppo. Accade per le case storiche in Carso che la particolarità di un carsolino del passato dia il nome tradizionale alla casa e ai proprietari della casa: “čuotvi” oggi si riferisce alla storica casa dei Devetak e alla loro famiglia. “Čuotvi” vuol dire appunto “la casa dello zoppo” ma si riferisce anche alla “famiglia dello zoppo” dove “čuotou” in sloveno significa zoppo.
Attraversando guerre, domini, violenze e sballottamenti della storia, la casa e la famiglia dei čuotvi giungono fino ad oggi.

UNA FISARMONICA IN CANTINA
La famiglia è sopravvissuta nei suoi valori e nel tramandare le storie delle sue persone. In queste storie, Sara sceglie quella dello zio Uštili come rappresentativa della saga dei Devetak. E’ una storia di fisarmoniche, dolore, festa e rinnovamento tra le generazioni del Carso. Racconta Sara:
«Mio nonno, quello dei campi di verze, è l’ultimo dei fratelli della sua generazione. Suo fratello maggiore si chiamava Uštili, che è l’abbreviazione di Avguštin.
«Uštili era quello che suonava la fisarmonica, che stava coi clienti, era l’oste cioè il simbolo della famiglia. Era un personaggio importante in paese.
«A 18 anni Uštili fa il soldato per l’Italia, durante la guerra. Nel ‘43 quando arriva l’armistizio avrebbe potuto scappare o nascondersi. Ma è là, in paese. Lo radunano assieme ad altri nella scuola, a Vrh.
«Lo mandano nei campi di lavoro al confine tra Germania e Polonia. Scrive sempre per tenersi in contatto con la bisnonna. E da lei riceve la minestra secca che gli viene recapitata puntualmente secondo l’efficienza delle poste tedesche.
«Finisce la guerra: c’è la liberazione del campo. Manda delle righe a casa: “Cara mamma, ci hanno liberati, sto tornando a casa”.
«Quel giorno, lui e i suoi compagni possono gironzolare nel campo da qualsiasi parte. Se ne va nei sotterranei assieme a un amico, un ragazzo di Doberdò. Cercano cibo. Uštili trova del pane e lo inzuppa nell’acqua. Si accorge troppo tardi che la bevanda è stata avvelenata. Per caso, il compagno di Doberdò si limita a bere l’acqua senza inzupparla nel pane. E sopravvive. Raccoglie le ultime parole di Uštili morente. Sono rivolte a casa: ‘mamma mia, cosa dirà mia mamma, che sono morto qua, senza andar veloce a casa’.
Continua Sara: «L’arrivo della lettera in paese, in cui si annuncia la morte di Uštili, corrisponde a una tragedia per tutti, non solo per la famiglia. Era la nostra anima e dei carsolini di Vrh.
«Quando nacque mio papà, fu battezzato Avguštin e anche lui soprannominato Uštili. Fu per tanti un sollievo e una benedizione. Ancora oggi in casa aleggia questa aurea dello zio Uštili con la sua fisarmonica, che teniamo ancora conservata in cantina.
«La sua anima continua in mio papà e dentro la famiglia».

I CARSOLINI, UN POPOLO FATTO DA BURJA
Cosa è il Carso per Sara? Ci ha risposto così:
«Vivo sul Carso e faccio parte del Carso. Il Carso mi rigenera di giorno in giorno.
«Sono come la terra carsica. Arida, difficile da capire, rossa, viva, ti trasmette la voglia di fare qualcosa. Quando la capisci diventa dolce e ti aiuta.
«Qui, poi, c’è la roccia bianca e la nostra pietra. Mi identifica molto, è forte, robusta, spigolosa e anch’io lo sono. Ma quando inizi a scavarla non sai mai dove finisce. Quando scavi potresti aver incontrato una pietra piccola, oppure un macigno enorme.
«In Carso c’è il sommacco che nel periodo dell’anno in cui dovrebbe dormire si carica di colori stupendi. Quando cammini qua, ti carica e avvolge di colori. Il sommacco ti dice “non ti lascio malgrado l’arrivo del freddo. Sono ancora qui per te”. Ti dà la forza per le stagioni più tranquille.
«E poi c’è la burja (la bora) che mi rigenera perché spazza via tutto, tira via tutto, ti pulisce tutto.
«Io sono legata al Carso e sento le mie radici profonde come quelle della nostra quercia. La storia ci ha piegato ma non ci ha rotto. Continuiamo a essere qua parlando in sloveno. Solo con la volontà che avevano loro, possiamo oggi parlare di 170 anni di storia che è sempre la stessa. Siamo sempre noi. Sono proprio qua, altrove non potrei essere».
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