«Mica metterai anche questa ricetta dentro il libro? Iera miseria». C’era questa vergogna tra le anziane che fecero da ‘informatrici’ di Vesna Guštin a fine anni ’90, quando grazie a loro scrisse «Xè più giorni che luganighe», il libro punto di riferimento sulla cucina del Carso, da allora in perenne ristampa.
Guštin in quelle formule vedette qualcosa di più. Quelle ricette non erano solo fossili di una civiltà contadina che, forse, è stata tra le più povere d’Europa. Le ricette della jota, la šelinka, la šopeta, gli gnocchi di pasta lievitata, gli štrukelji e il pane al grano saraceno non vennero trascritte dalla scrittrice carsolina solo come reperti saporiti di estinte vite di stenti.
Per capire il senso del suo libro e di quella raccolta di ricette dobbiamo seguire il corso di Vesna Guštin. Dobbiamo seguirla dagli anni ’50 quando nasce a Repen, a 11 chilometri dal centro di Trieste, all’interno delle stesse mura della casa in cui oggi abita.
«Quand’eravamo piccoli, ci lavano in una tinozza, in stalla, perché vicini alle mucche fa più caldo», racconta. E poi dice, fissandomi beffarda: «Ma cosa credi? Siamo sopravvissuti comunque, fino ad oggi». Continua: «Da piccola, mi mettono presto a lavorare». Rammenta: «Pascolo le vacche. Mi piace cucinare. Mi piace ascoltare le storie degli anziani».
Ma anche in Carso, quel modo di vivere antico che si ripeteva nei cicli delle stagioni come fosse da sempre, inizia a disgregarsi. «Danno via le mucche quando ho 12 o 13 anni», ricorda Guštin. Le vacche e le persone nei campi si diradano non solo dalla sua casa ma da tutta Repen e da tutto il Carso, insieme a una civiltà. Negli anni ’70, due terzi degli abitanti di Repen ormai lavorano nel terziario.
«Iniziano a buttar giù le vecchie case costruite in pietra col ballatoio in legno, col loro focolare al centro, dove le donne cucinano, dove la famiglia si scalda e sta insieme, dove gli innamorati si scambiano di nascosto i primi baci. Al loro posto, costruiscono in cemento armato e tapparelle».
Succede però che Repen in quegli anni diventi il centro di un movimento. Trenta famiglie del territorio, di tasca loro, comprano una vecchia casa coperta da scandole in pietra e la “salvano”: nasce il museo della Casa Carsica. Non contenti, a Repen creano le Nozze Carsiche per celebrare, almeno una volta all’anno, un matrimonio vero con i riti e i costumi di una volta.
In quel movimento di salvaguardia delle radici, qualche anno dopo Guštin dà il suo contributo più alto. Intervista oltre cento anziane carsoline per salvare le loro ricette, tramandate da mamma a figlia, da suocera a nuora. «Intanto volevo farlo per me. Poi, sarei stata felice se fossi riuscita a pubblicare le ricette almeno in sloveno. Poi, mi proposero di pubblicare anche in italiano». Nasce così il libro più noto di Guštin, “Xè più giorni che luganighe”. Il volume diventa la base per una lunga serie di corsi di cucina carsolina grazie ai quali l’autrice forma sia appassionati sia cuochi di spicco.
Nel libro e nella tradizione, «ogni ricetta ha una collocazione precisa: le ricette di ogni giorno e delle domeniche, i cibi che devono sostenere le mietiture, le falciature e le vendemmie, le pietanze per i battesimi, i matrimoni e i funerali, i piatti per ogni festa cristiana o pagana». Per Guštin, che ha studiato musica e dirige il coro maschile di Repen, ogni ricetta era una nota diversa dalle altre, che doveva essere espressa in un momento preciso sullo spartito delle occasioni, dei giorni e delle stagioni che si susseguono.
«Iera miseria», dissero le informatrici del libro a Guštin ma, si legge nel suo libro, era una vita «umanamente forse più ricca». Era una vita in cui nelle feste più antiche, come il Carnevale, i giovani erano una processione allegra tra i cortili del paese e i suoi abitanti. «In ogni casa ballavano con la padrona per il benessere della casa». Il susseguirsi dei crauti con le salsicce, la kaša, le fritole con l’anima, i crostoli e i krapfen era una delle melodie della festa di quei giovani che, con le maschere, evocando gli antenati e gli spiriti della natura, ballavano perché rinascesse una nuova primavera.
[questo articolo è apparso su IES Magazine ad aprile 2021]
