Al piano di sotto

Vi dico che la Bosnia è strade di macadam sopra canyon alti centinaia di metri. La Bosnia è montagne selvagge, che si sviluppano oltre quei canyon dove, avvertono, che se mai voi voleste camminare fin sulla cima, «sarebbe molto facile incontrare il cervo e l’orso».

Cercate oltre l’oscura eredità della guerra, che come un cane ha segnato il paese di lapidi, manifestazioni e tombe, di appelli murali a “non dimenticare” e “non perdonare”. Scavate oltre i veli e i burqa che si aggirano per Sàrajevo.

Allora, partite per la Bosnia. «Qua è il punto più alto del canyon», vi dice l’occhialuto sessantenne guidatore del furgone Fiat238, da noi in voga negli anni ‘80. «Siamo a mille metri sopra il fondo», aggiunge. Poi, torna ad agitarsi al ritmo del turbofolk e, nelle nuvole di polvere dello sterrato, a strombazzare ai furgoni davanti, per ricordargli che lui è più veloce di loro.

Avete già passato dei giorni a Sàrajevo dove vi è sembrato più facile del solito trovare qualcuno con cui chiacchierare. Siete stati nell’energia della capitale, che prova a sopravvivere coi viaggiatori di ogni sorta, tra musei sulla guerra, gatti e minareti, tra la statua a Giovanni Paolo, vetrine misere e ragazze tiratissime quasi come a Belgrado, tra baklava, čevapi e meravigliosi ravioli. Là, alla richiesta di spiegazioni, il gestore di un’antica casa ottomana del te è fermo e chiaro: «no, le donne col burqa non sono bosniache, ma turiste. Arrivano dagli stati del Medio Oriente che non hanno bisogno del visto sul passaporto per arrivare qui. No. Quando ero un ragazzo e c’era ancora la Jugoslavia, solo qualche anziana della campagna si metteva il velo».

A sorpresa, uno dei furgoni davanti al vostro si ferma per farvi passare. Non è una buona notizia perché già fino ad adesso, con ogni curva, avete dovuto fare i conti con le colazioni della meravigliosa, umile e grassa ospitalità locale, di salumi affumicati, pite o burek che dir si voglia, di uštipci cioè delle focaccine fritte da condire con il kajmak dolce o salato, in cui i mirtilli raccolti all’alba nella foresta sono quel qualcosa in più. Mentre voi avevate sul tavolo la vostra trionfale colazione, siete passati nella cucina. Avete visto seduti le cuoche e i ragazzini camerieri che mangiavano avidamente piattoni di capuzi freschi e pomodori.

Coi furgoni, vi state aggirando nel Parco Nazionale di Sùtjeska. Siete arrivati qua perché volevate visitare uno degli ultimi appezzamenti di foresta vergine d’Europa. Ma avete cambiato i piani per essere proprio su questo furgone, perché la giornata costava la metà e perché alla reception dell’Hotel Mladost, un edificio che ricorda proprio tanto la gioventù jugoslava, ve l’hanno suggerito.

La strada scende verso l’acqua, che iniziate a intravedere. Finalmente arrivate al piano di sotto di questa enorme distesa di carso selvatico, prossimi alla spiaggia. Dai furgoni escono altre piccole comitive. Sono soprattutto serbi di Belgrado, pronti a far festa nel rafting sul fiume in cui si pagaia, allegri di birra e slivovizza.

Ma a questo punto, per voi potrebbero pure atteggiarsi e vestirsi come al Carnevale di Venezia o al Burning Man nel deserto americano. Siete dentro uno dei grandi paesaggi dello spirito: una gola di pietre bianche ricoperte di foreste, scavata da feroci artigli di ere geologiche, in cui fluisce la potente corrente smeraldo venature di panna. È uno dei grandi fiumi d’Europa, è Tara, subito sarà Drina, poi Sava e Danubio. Mettete i piedi sulla battigia, poi tastate quel grande fluire, morte e vita. Saltate sul canotto. Toccate l’acqua con le mani. È fresca, a tratti ghiacciata, buona da bere. Poi, remate. Siate pronti a tuffarvi.

(a inizio agosto ero in Bosnia tra Sàrajevo, il Parco Nazionale di Sùtjeska e Mostar. Le foto ritraggono la piazza centrale del rione di Baščaršia, nella capitale; il tappeto dell’agriturismo Kovačević sul Zelengora; il Corano dentro il monastero derviscio costruito sopra le sorgenti carsiche della Buna)

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